“Non crediamo al trionfo del prodotto esclusivo di massa: è soltanto un’invenzione dei pensatori di pubblicità.”
– Alberto e Mara Del Buono
Il 10 aprile scorso il Club delle Fattorie chiuse i battenti, dopo 44 anni d’attività. L’annuncio lo lessi sull’omonima pagina di Facebook, firmata da Alberto e Mara Del Buono, con colpevole ritardo. E altro ne aggiunse la lentissima gestazione del mio blog.
La notizia, che io sappia, non è stata riportata da nessun giornale, neppure a Pienza, Siena, Toscana, neppure lì, insomma, dove nel 1971 nacque la piccola impresa. La torta del silenzio, insomma, ce la spartiamo in parecchi. Spero almeno che, alla cessazione delle attività, sia sopravvissuto il negozietto di Pienza, ch’ebbi modo di visitare quasi 20 anni fa.
A proposito di anni: dovresti avere grosso modo i miei (53 a oggi) e la mia fortuna per esserti imbattuto nel Club delle Fattorie. In caso contrario, non sai neppure di che sto scrivendo. E a che cosa vorrei dedicare più di un post, qui sopra. E perché.
Allora ne approfitto per un po’ di cronaca spicciola.
Si era più o meno negli anni Settanta del secolo scorso, hai presente? Dopo il famoso boom economico che portò (quasi) una Cinquecento in ogni casa degli italiani, la benzina cominciò a costare parecchio. Erano i tempi della crisi petrolifera del ’73, dell’austerity, del coprifuoco della Rai, che serrava il tubo catodico poco prima delle 23. Fuori dalle solite nicchie, soldi ne giravano pochi.
Dopo 40 anni, si spegne un grande sogno, spiaggiato sulla secca rena dei carrozzoni nazionalpopolari.
Ma, a quanto pare, Alberto Del Buono doveva aver fatto i suoi calcoli. Magari sperando nelle nicchie. Perché ciò che gli balenò alla mente era davvero ante litteram: una piccola e agile azienda che scegliesse il meglio del meglio della più genuina tradizione artigianale contadina italiana e lo proponesse ai soci per corrispondenza, grazie a un notiziario periodico, che giungeva anch’esso per posta.
La novità non era certo la vendita per corrispondenza. Dopo tutto, scrivo dell’era dei grandi cataloghi per la casa e la famiglia. Chi ha almeno i miei anni ricorda come fosse ieri quegli scrigni di meraviglie che erano i fascicoli di Postal Market e di Vestro. La posta, allora, era un po’ come internet: se sapevi che qualcosa c’era, un postino poteva consegnartelo. Il problema è che molto spesso non sapevi che cosa c’era, neppure dietro casa tua. L’idea vera di Alberto è questa: farci sapere che cosa si produce in Italia. Perché per lo più si viveva di miti: che avessimo grandi vini lo si sapeva, dove fossero no. Nessuno li cercava per noi. Che artigiani confezionassero meraviglie in tutto l’universo gastronomico lo si credeva per fede e, se s’era fortunati, per diretta esperienza. Ma erano tempi in cui non bastava navigare in Google per trovare confetture fatte a mano, cioccolata sopraffina, dolcezze d’alta pasticceria e così via. Alberto voleva far questo.
Quando il buono nostrano si fece mitologia, religione, racconto. Tanto da abbagliarmi e convertirmi per la vita.
In un’intervista del 1992 rilasciata a Cesare Pillon per un numero della rivista “A Tavola” (faticosamente rinvenuta online), Alberto enumerò: «Centinaia di squisite raffinatezze, frutta e verdura conservate, miele grezzo, olio d’oliva ottenuto con macina di pietra da frutti raccolti a mano sulle piante; e in più grappe artigianali, liquori distillati nell’ombra dei monasteri, cibi integrali, erboristeria alimentare e cosmetica. Senza rinunciare ogni tanto a uno sguardo oltre frontiera: per andare a scoprire, per esempio, le fattorie del whisky, che ancora producono il malto raro e prezioso come cento e più anni fa».
Oggi, parole come queste vi riempiono le orecchie perché scaturiscono da ogni bocca. In tempo di Expo, siam tutti gastronomi. Negli anni Settanta, invece, fecero il medesimo effetto di Mosè che scendeva dal Monte Sinai tenendo fra le braccia due tavole di pietra scolpite. Per la prima volta, il buono nostrano (e non solo) si fece mitologia, religione. E sulla via di Damasco abbagliò anche me, cieco ragazzino.
Chiudo, però, ripetendo l’ultima frase di Alberto e Mara, trovata in fondo alla già citata intervista e collocata in testa a questo post; un monito, in questi tempi di Expo. Quasi un vaticinio. «Non crediamo al trionfo del prodotto esclusivo di massa: è soltanto un’invenzione dei pensatori di pubblicità».
Buongiorno signor Giorgio,
ho avuto la fortuna di conoscere il Club nel 1982. Il mio primo incarico come grafica, gomito a gomito con Alberto Del Buono. Impaginazione del catalogo di vendita per corrispondenza e poi le etichette dell’olio d’oliva extra vergine, delle confetture e delle salse, gli imballaggi delle confezioni di vino e tanto altro. Sono stati anni di passioni, divertenti, creativi e il computer era ancora lontano dal mio tavolo da disegno! Anni di formazione in ogni senso grazie a incontri con persone non comuni. Grazie Alberto Del Buono. Con affetto, Sonia Mastrogiuseppe
Grazie, Sonia.
Non sai che piacere mi ha fatto leggere le tue parole. Posso darti del tu, vero? La tua testimonianza è davvero bellissima e ci riporta tutti a tempi in cui tutto sembrava avere più sapore.
Forse eravamo soltanto più giovani, chi lo sa. Forse tante cose erano ancora da scoprire. Per me, a quei tempi, lo fu proprio quel piccolo catalogo. E, a quanto leggo, lo è stato anche per te. Io ho sempre invidiato chi lavorava per quel catalogo. Nella mia fantasia, vi immaginavo come immersi in una bottega di Babbo Natale, senza elfi, ma pieni di barattoli, bottiglie, etichette da creare, testi da scrivere…
Purtroppo, quando il Club delle Fattorie chiuse definitivamente, nessuno scrisse una parola, non ci fu un suono. Eppure, sono sicuro che nel cuore di tanti è rimasto davvero indelebile. A me ha insegnato a sognare in maniera diversa, in un tempo in cui, come hai ricordato, il computer non c’era sulle nostre scrivanie e tanto meno internet. Mi parlava di prodotti italiani che mi sembravano lontanissimi e, quando leggevo di rum o whisky, mi pareva che bisognasse andare sulla Luna per procurarsene. Sfogliare il catalogo era un po’ leggere con passione un romanzo di Jules Verne o di Emilio Salgari.
Grazie ancora tantissimo per i tuoi ricordi. E se hai voglia di condividere ancora qualcosa, qualche episodio, qualche momento, ti prego di farlo.
A presto, spero.