Giungo infine al nocciolo e alla conclusione.
Pranzo di Natale del… ah, ricordarlo! Avrei dovuto segnare la data con un sassolino bianco. Di quell’ammaliante cartone di bottiglie (che non osavo stappare ma solo guardare fino allo sfinimento) m’ero tenuta cara una Malvasia di Castelnuovo Don Bosco, descritta a catalogo dolce e sublime, degna dell’etichetta col logo del Club: la corte esagonale di casette a mo’ di celletta d’alveare. Di chi era? Non lo ricordo e non l’ho mai ritrovata. Se mai riuscirò a fare la rivista di questo mio sito, una delle prime persone che vorrò intervistare sarà proprio Alberto Del Buono: magari lui se la ricorda ancora…
Come un negozio per corrispondenza mi cambiò la vita, un Natale di tanti anni fa.
Ma, ora, non è questo il punto. Il punto è che siamo tutti lì, io, mamma, papà e sorella, attorno alla tavola del salotto, in pieno giorno di Natale, a fine pranzo. Mia madre mette in tavola i dolci e io la Malvasia, fresca fresca di frigo. Prendo il cavatappi, apro la bottiglia. E subito si diffonde per l’aria un sentore viola come di rose di bosco, nitido, seducente, così intenso da stordire. Io resto di sale, come la moglie di Lot. Mai, in tutta la mia vita, avevo pensato che un vino potesse avere così tanto profumo. Non erano soltanto storie meravigliose di vigne e luoghi mai visitati: era qualcosa di fisico che accarezzava la parte più nascosta di te, la tua poesia interiore, e le dava un significato, un colore, un volto. A distanza di tanti anni, ancora non riesco a pensare a che cosa provai. Perché è il verbo a esser errato. Meglio che mi fossi chiesto che cosa vidi. Vidi una parte di me. Un aspetto di me che non avevo mai percepito e che pure era lì, in attesa che il profumo di un vino lo risvegliasse e lo riempisse non soltanto di storie e racconti, ma anche di sensazioni ed emozioni. «Ma non lo sentite?» continuavo a gridare. «Non lo sentite anche voi?». Qualcuno disse «che cosa?» e io risposi «le rose», perché di più non mi veniva. Mio padre annuì, mia madre serviva i dolci, tra il distratto e il partecipe, non sapeva bene come comportarsi; mia sorella era piccola e mi guardava.
Io grido “Le rose, le rose!” e tutti mi guardano stupiti, pensando che di avermi perso per per sempre… E non avevano tutti i torti!
Cominciò lì. Un’epifania. Tutto ebbe inizio in quel momento e da allora non ho più smesso di dialogare con il vino e con la parte di me ch’esso soltanto sa ridestare. La mia vita cambiò, anche se soldi per acquistare da quel catalogo in tasca non me ne vennero mai. Così, pian piano, alla fine il catalogo cercò indirizzi più promettenti e mi abbandonò.
Moltissimi anni dopo (questa volta nel 1998) stavo per sposarmi. E anche allora, dopo tre lunghi anni di restauro alla casa che tuttora io e mia moglie Piera abitiamo, di soldi non ce n’eran proprio. E Piera non voleva buttarne altri in un ricevimento. Così, rimboccandoci le mani, ci mettemmo a preparare tutto noi. Ma questa storia, se mai t’interessa, te la racconterò un’altra volta. Il punto, ancora una volta, è che davanti alla mia vita che di nuovo cambiava, avrei tanto voluto che ci fosse la presenza di chi già tempo addietro me l’aveva cambiata. Ma del Club io non ricordavo nulla e nessun catalogo era sopravvissuto al tempo. Finché, un giorno, io e Piera ci ritrovammo a Pienza. Eravamo in giro per il Chianti, a cercar cibo per il nostro matrimonio. Erano gli anni in cui Slow Food esplodeva ed erudiva, parlandoci d’olio, vino e salumi sopraffini. Altre leggende, altri racconti da inseguire.
In Piazza Martiri della Libertà, centro storico, c’era un emporio che mi ricordava qualcosa. Perché capii ch’era quella la sede del club? Non lo ricordo. Forse le solite casettine spiccavano da qualche parte.
Il Club aveva dato alla mia esistenza un nuovo corso. Per questo l’invitai al mio matrimonio!
Entrai e, quasi incapace di guardare, come se la realtà potesse distruggere la fantasia, mi diressi da una signora (Mara?) e le chiesi se era quello il Club delle Fattorie. Mi disse di sì, confermandomi che la vendita per corrispondenza era molto inferiore a un tempo, purtroppo. Ma mi diede un piccolissimo catalogo, l’ombra di quello di un tempo. Uscii senza tentare ancora una volta di vedere. Davvero temevo che la realtà fosse inferiore al tesoro che ricordavo. A casa, però, presi il piccolissimo fascicolo e cercai un cenno della Malvasia, ma non ne trovai.
Ordinai, però, per il giorno delle nozze, un misterioso e fragrante Fiano di Avellino e il Vin Ruspo di Capezzana. Per la torta di nozze presi un Moscato Fior d’Arancio di Ca’ Lustra (oggi hanno cambiato l’etichetta, rendendola più moderna, ma era quello). E poi una Grappa di Brunello con l’etichetta personalizzata, che sognavo fin da ragazzino, e una di grappa di Moscato, altro mio sogno, entrambe dei Fratelli Marolo, entrambe con l’etichetta di Gianni Gallo.
Così, il Club delle Fattorie fu presente anche alla seconda svolta della mia vita: non più autore, ma comunque fedele amico.
E qui, alla fine dell’ultimo post dedicato alla chiusura dello storico Club, confesso di non aver compreso, già allora, che l’azienda resisteva e resisteva contro le grandi crisi economiche e la pubblicità di massa. Mi ero convinto che, da tempo, il Club altro non fosse che un piccolo negozio di una piccola città d’arte, ormai dimenticato. Non era così. E mi sento ancor più colpevole. Dubito che i miei soldi (che sono sempre stati pochi) o la mia voce (che è sempre stata flebile) avrebbe potuto salvarlo. Ma aver spartito con tanti altri la torta amara del silenzio non mi fa star bene. Un’elegia arriva sempre troppo tardi, a bara chiusa. Ma almeno so che nella foresta in cui quest’albero è caduto inosservato, questa volta c’ero e mi sono voltato allo schianto.
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