Nel post precedente ho scritto in generale del Club delle Fattorie e della sua serrata nell’aprile del 2015. Ora ti parlo di ciò che è stato per me. Di come sia entrato a buon diritto nella mia mitologia personale. E lo scrivo qui, in Utensili, per terminarlo in Enofilia: perché il Club non soltanto mi schiuse gli occhi alla produzione alimentare di qualità, diventando il primo strumento che usai per conoscere ed evolvermi, ma anche al vino. Soprattutto al vino. E se oggi sono qui, personal chef, sommelier e giornalista, è perché il club entrò di prepotenza nella mia vita, senza lasciarmi mai per davvero.
Come quel catalogo si smarrì nella nostra cassetta delle lettere resterà per sempre un mistero. I miei erano operai e faticavano a mantenerci agli studi, me e mia sorella. Soldi da spendere per il voluttuario ce n’eran pochi, quasi niente. E poi era questione di mentalità: che senso aveva comprare per corrispondenza un vino costosissimo, quando lo si poteva trovare a poco prezzo in comodi bottiglioni, nel negozio sotto casa?
Un angelo custode diede il nostro indirizzo di casa alla mailing list del negozio online… Peccato che non avessimo una lira in quattro!
Chi mai diede il nostro inutile indirizzo ad Alberto Del Buono? Forse un angelo custode. Custode mio e non d’Alberto, sia chiaro, poiché nessuno in casa mia, lo si è capito, avrebbe mai acquistato neppure un biscotto che costasse più di un savoiardo. Però, appena ebbi fra le mani quel libriccino e cominciai a sfogliarlo curioso, ne fui subito stregato.
Quei testi così puliti e perfetti! Chiunque descrivesse quei prodotti, per me era un autentico mago: non c’era nulla che richiamasse la mera esposizione di un articolo, la brutale e didascalica vivisezione di un potenziale acquisto.
Ogni vino, ogni whisky, ogni dolce d’artigianato era narrato, vissuto, scoperto, conquistato. C’era amore, fra quei paragrafi. Sarò anche stato un ragazzino, ma la mia sensibilità alle parole era forse più intensa di quanto lo sia ora. A quei tempi, non avevo la minima idea di chi fosse Alberto Del Buono. Tanto meno quel cognome mi diceva qualcosa. Ho scoperto soltanto ora, costruendo questi post, che Alberto era cugino di Oreste Del Buono. Proprio quell’Oreste Del Buono scrittore, giornalista, traduttore e critico letterario: “linus” non ti dice nulla? Il sangue non è acqua, insomma. E, prima di intraprendere la sua avventura, Alberto era direttore delle vendite per corrispondenza alla Fabbri Editore e Mara segretaria di direzione. Sangue, mestiere, destino, amore… c’era tutto, in quel catalogo. Come potevo non esserne ammaliato?
Un giorno, se mai finirò nel girone infernale dei golosi, punterò l’indice verso Alberto Del Buono e lo accuserò di ogni colpa!
Presto quelle paginette color paglierino sostituirono i romanzi d’avventura. Leggevo e rileggevo fino alla nausea la nascita del Tignanello, i whisky di puro malto delle più esotiche e inaudite regioni della Scozia (Speyside, Islay e così via), e poi le specialità toscane e quelle siciliane. Ogni bottiglia, ogni incarto, ogni barattolo era benedetto da racconti che bevevo come il miglior Salgari. Sognando. Immaginando che anch’io, un giorno, sarei stato tanto ricco da poter compilare il modulo d’ordine a fine catalogo, che mi tentava come la caverna di Alì Babà.
Alla fine, mese dopo mese, riuscii a metter da parte la bellezza di 12.000 lire: tanto bastava, se non ricordo male, per farsi inviare a casa il pacco dell’invito al vino, ben 6 bottiglie a caso fra quelle che giacevano ancora invendute nel magazzino di Pienza. Contai i giorni, come a Natale. Avevo appena pronunciato il mio Apriti, Sesamo.