“Apericena. Né arte, né parte. Né carne, né pesce. Né zuppa, né pan bagnato. Un vorrei ma non posso. Nove letterine che, quatte quatte, in un sol colpo snaturano due istituzioni.”
– Serena Capelli
Che cos’è un apericena? Un aperitivo allargato, nel tempo e nella sostanza, fino a rivestire i panni di una vera e propria cena. Nasce nei bar torinesi (e non poteva essere diversamente) verso la fine degli anni ’90 e ha evoluzioni socialmente interessanti. In che cosa si differenzia da un comune buffet? Che quest’ultimo nasce nelle sale dei ristoranti, in cui il punto di partenza e d’arrivo del cliente coincidono: parlo del tavolo dove si è seduti.
L’apericena, mi dispiace per tutti, non è un vero buffet! Nel buffet si mangia anche seduti, in un apericena no…
Ci si alza, ci si serve al buffet, si torna seduti. L’apericena è figlia della socievolezza del bar: la gente spilucca tutta dal bancone, tenendo nella mano un bicchiere e nell’altra lo stuzzichino. Chiacchiera, flirta, vaga, ondeggia… Si siede solo per riposare le gambe, non per impugnare cucchiaio e forchetta, come nel buffet.
Va da sé che l’apericena, quell’autentica, si distingue anche in questo dal buffet: nel buffet ci possono essere veri e propri piatti da riempire, perché tanto ci s’accomoderà a un tavoli, belli seduti. Nell’apericena si mangia solo con la destra (o la sinistra, se si è mancini), mentre con l’altra mano s’impugna saldo il bicchiere, senza mollarlo mai. Ecco, il finale della storia è questo. Ma come comincia? Come tutte le storie, direi…
MASCHIO O FEMMINA?
Specchio, specchio delle mie brame… ma che cos’è mai un’apericena? Già, qui l’ho scritta con l’apostrofo, “un’apericena”. Al femminile, mentre all’inizio l’ho declinata al maschile. Perché questo è il primo mistero dell’apericena: si tratta di un sostantivo femminile (un’apericena) o maschile (un apericena)?
Il Vocabolario Treccani risolve in quattro parole la faccenda: può esser di entrambi i generi, a seconda che si voglia dar più peso alla parte “aperitivo” (e allora apericena diventa maschile, in quanto inteso come un tipo d’aperitivo) o alla parte della cena (e quindi intesa come una cena diversa da quella classica). Quindi, non stupitevi se la ficco nel genere più fluido possibile e la faccio vagare tra maschile e femminile a seconda di come mi gira al momento…
Perché, va da sé, il bello (o il brutto) di questo neologismo sta proprio in come ognuno lo immagina. Ed eccomi tornare alla domanda primeva: ma che sarà mai quest’apericena?
ALLE FONTI DELL’APERICENA
Andiamo all’origine del termine, come si fa nei testi seri di divulgazione. Per quanto nessuno si sia preso la briga di tracciare la storia dell’apericena, sacri testi (tra cui Wikipedia) affermano che quest’usanza nasce nell’Italia nordoccidentale (parliamo quindi di Lombardia e Piemonte, per chi non avesse mentalmente chiara la cartina geografica del nostro Stivale) e, più propriamente, a Torino. Non è un caso.
Sembra che tale usanza sia nata a Torino, all’incirca verso la fine degli anni Novanta del secolo scorso.
ALL’ORIGINE CI FU IL VÈRMUT
Non è un caso, poiché Torino è la capitale mondiale dell’aperitivo.
Inutile rivangare storie passate conosciute da tutti, con nomi, luoghi, date e bevande che hanno fatto non solo la storia d’Italia, ma la storia della gastronomia mondiale.
Vogliamo davvero metterci a discutere su Antonio Benedetto Carpano, che nel 1786 creò l’omonimo vèrmut (in italiano si scrive così, inutile storcere il naso: anche se lo trovi spesso come “vermouth”, sappi che così si scrive in Francia…), da sorseggiare nella sua bottega (sotto i portici di Piazza Castello, sempre a Torino) con qualche stuzzichino?
Carpano chiamò questo passatempo merenda sinoira, ossia “merenda serale” in torinese: un successo planetario! Solo che oggi lo chiamiamo aperitivo. Anzi, tutto il globo terracqueo lo chiama aperitivo. Mica male, no?
INSOMMA, ‘STA APERICENA?
Arrivo, arrivo. Volevo solo sottolineare che non c’è apericena senza un aperitivo originario, preistorico, fatto di quelle due o tre cosine che accompagnavano il bicchierino alcolico. Il grissino, per esempio, tanto per restare a Torino. Oppure quei terribili piattini di olive e spagnolette tostate e salate, o di patatine, un classico in area milanese e lombarda. Scrivo orribili perché a me fan tristezza. Perché le olive mi ricordano sempre una frase di Mary Tyler Moore pronunciata nella sitcom che da lei prendeva il titolo: «I noccioli delle olive buttati nel portacenere si sporcano subito di cenere e sembrano degli animaletti morti…».
POI, LA RIVOLUZIONE
Poi, appunto, la rivoluzione. O, meglio, l’intuizione: rendere l’aperitivo qualcosa di più sostanzioso, magari persino gourmet. Da dove nacque? Fu un’evoluzione spontanea del grissino e della spagnoletta, quasi richiedessero per natura di svilupparsi in qualcosa di più abbondante e meno insulso, oppure fu ripresa dalla tradizione dei cicheti veneziani (che però nacquero come spuntino di mezza mattina e non serale) o addirittura dalle tapa e dai pincho spagnoli? Boh, sinceramente non lo so.
La gente comincia a viaggiare, e viaggiando si lascia ispirare… Spagna, Venezia…
So che, quand’ero ragazzo e ancora frequentavo i bar, avevo un’amica che per l’aperitivo sostanzioso andava pazza e si faceva sempre portare in luoghi che conosceva lei, dove per 8.000 lire potevi mangiare un sacco di cosette. Niente di che, per carità: però potevi prenderne ad libitum, a piacere, in piena libertà.
L’APERITIVO DEI PENDOLARI
Ecco, in questo preciso momento (si era davvero alla fine degli anni 90), l’apericena mette fuori il capo ed emette i primi vagiti. Ci sono due bisogni, tipici del Nord Italia, da saziare (e non è un modo di dire). Il primo è riuscire a tornare a casa senza svenire dalla fame. Piemonte e Lombardia sono zone di grande pendolarismo. Se lavori a Milano o a Torino e torni col treno o con l’auto in provincia, dove di sicuro abiti assieme a un megamiliardo di persone, ci metti il tuo bel tempo.
Sfamare i pendolari, magari senza spennarli troppo: è questa l’origine dell’apericena?
E magari con i crampi allo stomaco per la fame. Perché, si sa, il vero lavoratore del Nord pranza leggero, spesso leggerissimo. E alle 18 si ritrova un buco nella pancia come Buc il bucaniere che non sa come colmare.
C’è poco da ridere, poiché la questione ha risvolti etico-morali, nonché pratici. Ha senso spendere soldi per mangiare poco prima di cena? E quanto si dovrebbe mangiare per evitare di rovinarci l’appetito? Ed ecco la questione etico-morale: ma è cosa buona e giusta mangiare da soli, come un affamato?
UNA QUESTIONE ETICO-MORALE
La risposta a tutte queste domande era già lì: l’aperitivo rinforzato. Lo condividevi coi colleghi a fine giornata lavorativa, poco prima di andare a prendere il treno. Scambiavi le ultime chiacchiere della giornata e, nel frattempo, l’atmosfera sociale giustificava l’esborso (che comunque era più modesto di una pizza + birra) e il fatto che, alla fine, non eri davanti a un pasto di quattro portate. Smettevi di rimpinzarti quando volevi. L’aperitivo rinforzato, ordunque, ti risolveva un sacco di cose in un colpo solo. Ma che ci trovavi, in quest’aperitivo?
TRA TRE TARTINE E TARTE TATIN
Se ti andava bene, in questi aperitivi (che esistono tuttora, anzi, oggi più che mai) ci trovavi delle tartine, che sostenevano le classiche pizzette secche di pasta sfoglia. Andavano da quelle più semplici (fetta di baguette con sopra fetta d’affettato) a quelle più elaborate (fetta di baguette con sopra un cucchiaino d’insalata russa)… Ok, sto esagerando! Ma all’inizio ci s’ingegnava: chi teneva un bar spesso non aveva a disposizione (anche mentale) chissà quante soluzioni.
Tutti volevano rinforzare l’aperitivo. In pochi avevano però le idee chiare, ai tempi.
C’erano i trancetti di pizza vera, che per fortuna sostituivano le pizzette. C’erano le tartine con la gelatina sopra, magari comprate in qualche discount o fatte (se ti andava di lusso) dalla pasticceria di fronte. C’era tutto quel che veniva in mente, a volte persino piatti caldi, se esisteva un uso cucina dentro il locale.
NASCITA DELL’APERICENA
Ancora un ultimo metro, anche se ti fa male un po’ la milza per lo sforzo. Ecco, l’apericena nasce qui. Che esigenza soddisfa, dato che l’aperitivo rinforzato ne soddisfaceva parecchie? Semplice: quella di abbattere i confini tra giornata lavorativa e serata ludica, evitando il rientro a casa, posticipandolo. Da risolutore di buchi gastrici d’origine pendolare, l’apericena diventa il Caronte dei cittadini (o dei pendolari automuniti) verso una serata di svaghi, senza soluzione di continuità tra l’ufficio e lo struscio tra i locali. Si resta con gli amici del lavoro, senza abbandonarli. Oppure si attendono o si raggiungono altri amici che strusceranno con te per le vie del centro.
La casa, nel frattempo, attende. Con la (quasi) certezza che sul tavolo di cucina non ci fosse un languido piatto di maccheroni freddi e collosi da riscaldare al vapore di una pentola (bella, eh, quest’immagine anni 50-60?)…
DALL’APERITIVO ALL’APERICENA
Ma l’apericena che mai avrà di diverso da un aperitivo un po’ sostanzioso? Parecchio. E non è soltanto una questione di concetto (di quello ho appena scritto). È una questione di sostanza: se l’aperitivo deve collegare due momenti della giornata (il lavoro e il dopolavoro), che sempre erano stati separati da una netta cesura (mentale ma, soprattutto, pratica), dribblando la cena, in qualche modo doveva riempirne il vuoto, per rendere più agevole e meno traumatico il transito.
L’aperitivo sente sempre più l’esigenza di allargare i propri confini. Dal ritaglio di bancone si stenderà per la sua interezza come una novella Maya Desnuda.
L’aperitivo, insomma, doveva trasformarsi in cena vera e propria: nella sostanza, più che nella forma. Inventando una forma nuova, che con il trascorrer del tempo e dell’usanza è divenuta nuovo contenuto: l’apericena, infatti.
APERITIVO+CENA
Se in casa propria, nel proprio giardino, nel luogo in cui stiamo allestendo un evento o festeggiando una ricorrenza, costruiamo un momento per l’aperitivo (di solito per attendere la spicciolata degli ospiti) e poi uno per una cena seduti, non stiamo facendo una vera e propria apericena, anche se ormai pare che tutti la chiamino così. Stiamo solo rinnovando (ma solo nel nome) un rito consueto, in voga da sempre: quello dell’ospitalità (spezzo e condivido il pane con gli ospiti man mano che arrivano e si raccolgono) e quello della convivialità (mi riunisco con l’interezza degli ospiti attorno a un desco). Si fa, insomma, una comunissima cena preceduta da un momento di cortesia.
PORTARLA IN CASA PROPRIA
Ma si può riportare in casa l’autentica apericena? Ovviamente sì.
Ricordo che una volta, su un blog di cucina, una signora pose la seguente domanda: «Come posso organizzare una cena in piedi?». Un umorista rispose: «Tolga tutte le sedie!».
Ricostruire un’apericena casalinga, in fin dei conti, sta proprio in questa risposta salace: togli la cena seduta, allarga l’aperitivo e rendilo ricco come un buffet. E fai in modo che ciò che si mangia possa essere afferrato con comodo da una mano sola, mentre l’altra tiene il bicchiere.
Chissà se è possibile riportare l’apericena alla sua originaria purezza… Ci proveremo nella prossima puntata!
Il cibo, quindi, dev’essere dosato ad arte: finger food, tartine, panini, affettati, formaggi, polpette, ecc. ecc., ma niente che ti costringa a usare un piattino e una posata. Lecito (e utile) il tovagliolino di carta. Ma niente più. In questo modo, si torna all’ancestrale apericena. In modi diversi (tavoli e piattini da appoggiare, posate, brodi, zuppe e minestre) si ricade nel già esistente buffet. E questa, davvero, è un’altra storia.
Ma di come creare una vera apericena a casa propria parlerò prossimamente, nella seconda puntata di questa avvincente telenovela.
Stay tuned, come si dice in radio.