La Pedemontana si finirà, giurano con ogni voce i pezzi grossi lombardi che l’adorano come una mamma. E non ci saranno né se e né ma, perché le auto devono scorrere veloci, i collegamenti snellirsi, la gente incontrarsi, il commercio rifiorire. Anche se, come dicono da queste parti, di danée ghe n’è minga, di soldi non ce ne sono più. Ma chissenefrega, poiché l’Expo milanese insegna: non importa quanto insensato e controproducente sia un impegno, è sufficiente che sia sostenuto da una storia credibile e smerciabile. E una volta inventata la favola, basta piazzarlo là, l’evento, per mostrare al mondo che, in quanto a follia edilizia e imprenditoriale, non siamo secondi a nessuno. Non temiamo nessuno, possiamo camminare a testa alta. E che se la ragione non ti convince, ci penseranno la retorica, il pensiero positivo, le promesse di tante cose nuove belle, ma così belle, che se ti schieri contro sei un criminale. Anzi, sei un antitaliano. Uno che non ama il suo Paese. «Noi siamo il simbolo del progresso. Noi siamo scemi, ma fa lo stesso», recitava una delle visioni più agghiaccianti su come sarebbe stato il nostro futuro: perché la pubblicità che si deve temere non è tanto quella che fa mettere un tigre nel doppiobrodo, ma quella sottile che assopisce lo spirito critico e ti porta, giorno dopo giorno, a credere che chi usa le parole più belle sia altrettanto bello e buono. In barba ai dati, ai risultati, alla realtà.
Quindi, come da copione, la minaccia avanzerà: il biscione d’asfalto che collegherà la tangenziale varesina al confine svizzero di Gaggiolo striscerà in maniera inesorabile, rendendoci tutti più connessi e felici, non appena si troveranno i soldi per affrontare quest’ultima tratta. Peccato che, sul suo percorso, l’asfaltatissima che fa benissimo si scontrerà con i risibili interessi dell’asparago di Cantello, prodotto a denominazione comunale considerato fra i più buoni d’Italia, quindi del mondo. Interessi risibili, appunto: come direbbe il signor Spock di Star Trek, con logica vulcaniana, «le esigenze dei molti contano più di quelle dei pochi, o di uno». E così, mentre attendo che qualcuno mi fornisca un elenco dettagliato dei molti che trarrebbero linfa vitale da questa strada, inganno il tempo contando i piccoli produttori che perderanno, prima o poi, i già risicati terreni da coltivare. Perché dev’esser un gran bel lavorare, sapendo che la spada di Damocle sopra le loro teste, prima o poi, sarà tanto pesante da rompere il crine di cavallo che la regge. Tanto più che gli asparagi non son patate, con tutto il rispetto per i tuberi: tirare nove file di asparagi lunghe 150 metri costa circa 5 mila euro e il primo raccolto utile lo si ottiene dopo tre anni dall’impianto. Investimenti non da poco, quindi, per gente dalle risorse limitate scommesse sul tavolo verde della loro pelle.
Ma una Pedemontana val più dell’economia e dell’agricoltura locale?
L’Expo (e tutto ciò che lo circonda) sfamerà anche il mondo, ma di affamare i coltivatori diretti di Cantello «non ci cale mica», come recitava l’immortale canzonetta di Heather Parisi. Non per nulla, afferma la biondissima show girl di un tempo che fu, «delle cicale ci cale, ci cale. Della formica invece non ci cale mica». Perché è un po’ piccina, in confronto alla cicale, e soprattutto sta zitta zitta a lavorare, invece che a narrare all’universo mondo, magari grazie a qualche magico hashtag, che si sta lavorando per salvare tutto e tutti. Ok, mi fermo qui, prima che mi sospetti d’abominevole retorica leghista (tanto più che ai leghisti la Pedemontana piace…). La pianto, insomma, perché il mio discorso sta diventando retorico e qualunquista, oltre che un briciolo demagogico. E questo non va bene. Approfondirò quindi il problema, con più dati alla mano, in un futuro post. Così come molto presto parlerò più a fondo della questione Expo 2015.
Per adesso, invece, è meglio che mi concentri sugli asparagi cantellesi, invece, perché se di ingredienti desidero raccontarti, tanto vale che parta da Cantello, dove vivo e lavoro. E comincio a dirti che il terreno sabbioso e ben drenante di questa zona sembra fatto apposta per tale coltivazione: non son pochi, infatti, a credere che persino i Romani, da queste parti, ci piantassero i sacri ortaggi.
Sia come sia, il primo vero documento scritto che testimonia l’esistenza di quest’ortaggio risale però all’8 maggio 1842 e si trova all’Archivio di Stato di Como, Fondo Prefettura, Censo Comuni, Cartella 2869. Fu rinvenuto dallo storico locale Gianpiero Buzzi e quindi citato alla pagina 293 del suo libro Cantello, Ligurno, Gaggiolo e Velmaio. Memorie e documenti, scritto assieme alla figlia Cinzia e pubblicato nel 1995.
Un asparago bianco, con la punta rosata o violacea, della qualità Violetto d’Argenteuil, importato dalla Francia nell’800.
Vi si legge che don Pietro Stoppani, parroco a Cantello dal 1831 al 1858, indisse un’asta di asparagi che fruttò 127 lire, impiegate per abbellire il campanile della chiesa centrale. A quei tempi, tralasciando l’antica istituzione della decima e le donazioni in denaro contante, erano tre le fonti di finanziamento a cui il sacerdote attingeva per le spese: la prima giungeva dall’offerta dei bozzoli dei bachi da seta, che gli allevatori donavano affinché fossero rivenduti dal prete, la seconda dalla filatura del lino e la terza, infine, dagli asparagi. Nel 1846, il pulpito fu abbellito col ricavato della filatura del lino e con quello dell’offerta degli asparagi e l’anno dopo la Cappella della Madonna del Monte Carmelo fu ornata con offerte private e dai soldi ricavati dall’incanto degli asparagi (110 lire) e dalla filatura del lino (90 lire).
Gli asparagi, insomma, non erano cosa da poco e venivano subito dopo l’allevamento del baco da seta. Già nel 1863, in un altro documento, si scopre che la prima voce dei ricavi parrocchiali era dovuta all’asta dei bozzoli (o gallette, come allora erano chiamati) e la seconda alla vendita di asparagi: rispettivamente 175 e 89,22 lire).
L’asparago di Cantello si mangia tutto, senza sprecare nulla. Basta pelare bene il turione con un pelapatate e farlo cuocere in acqua bollente salata per 20 minuti, lasciando la punta fuori dal liquido. Si serve con uova al tegamino, Grana Padano e burro fuso.
– Ricetta tradizionale varesotta
La prima Fiera dell’Asparago si volse invece la domenica del 28 maggio 1939. A parte qualche interruzione dovuta ai conflitti bellici mondiali, quest’anno siamo arrivati alla 75° edizione, con sempre più gente e, finalmente, sempre più asparagi “autentici”, quelli chiamati Violetto d’Argenteuil (gambo bianco e punta lilla-rosata) e portati dall’omonimo sobborgo parigino dai lavoratori che s’erano recati in Francia per trovar lavoro.
Ma se la sagra popolare fu quasi ininterrotta, così non si può dire delle coltivazioni. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, infatti, il calo di produzione ci fu eccome, tanto che ormai chi coltivava l’asparago lo faceva soltanto per i fornelli di casa sua, non di più. Quando giunsi da queste parti per sposarmi, nel 1998, il prezioso ortaggio era più raro dell’Araba Fenice. Non sapevo, però, che ben due anni prima Franco Catella, coltivatore diretto e uomo dalla grande e ambiziosa energia, aveva già pensato di resuscitare il Lazzaro tra gli ortaggi. «Riporterò gli asparagi a Cantello», promise alla moglie Antonella nel 1996. A quei tempi Franco aveva 29 anni, era giovanissimo, ma con le idee chiarissime. Andò a Bassano del Grappa, per studiare come coltivavano i loro famosissimi asparagi, tornò a casa e si mise a fare mille prove, mille esperimenti, spendendoci soldi, fatica, impegno e anche reputazione. «La cosa che più mi addolorava» mi disse anni dopo, quando lo intervistai per “Io Cucino” «è che non ci credeva nessuno, tanto da finire addirittura per osteggiarti, come se fossi stato lo scemo del villaggio. Ora, invece, fan tutti a gara per prendersene il merito». Il merito, invece, fu tutto suo. Gli altri seguirono a ruota, ma la gloria fu di Franco, anche se la godette poco. Il 25 aprile 2009, a soli 42 anni, un malore lo colse e lo portò via. Io non lo conoscevo, lo ammetto. L’avevo visto un paio di volte, la prima per l’intervista, la seconda in Svizzera, non mi riconobbe e io non feci nulla per farmi riconoscere, anche se quattro chiacchiere le scambiammo. Oggi l’asparago di Cantello è una realtà che offre lavoro e strappa terreno all’inutile e dissennata urbanizzazione (sì, c’è anche qua). Un giorno varrà la pena sentire la moglie Antonella raccontare la storia di quei giorni, di quando un piccolo asparago era una Grande Opera davvero. Più coraggiosa di un’autostrada, più significativa di quella fiera delle vanità spuntata alle porte di Milano.