“Grassy, sharp and peppery.”
– Rose Gray
L’olio della Fattoria di Morello è l’olio con cui sono cresciuto. Ci sono nato, io, dentro quest’olio. Mi ci hanno svezzato prima il cervello, l’istinto e il cuore, e poi tutto il resto ad libitum, come veniva veniva. È il mio acufene personale, Morello, un’eredità sonora che mi fischia nelle orecchie dalla nascita, anche se son nato in provincia di Milano (ora Monza e Brianza), poiché quando le scuole chiudevano, finivo dai nonni in Toscana.
«Pisciato dagli angeli», diceva di quest’olio mio nonno Cesare, detto Cesarino perché era piccino, arrivava sì e no al metro e sessanta, tre pacchetti quotidiani di Nazionali, quelle dure e cattive, con una silicosi al novanta per cento made in Richard Ginori, fabbrica madre di Sesto Fiorentino, a un passo da Firenze. Finché un giorno ha detto basta, facciamola finita col fumo e ha smesso. Ci siamo assomigliati anche in questo, me ne rendo conto soltanto ora.
Un olio pisciato dagli angeli, diceva mio nonno, come dire che, su questa terra, di liquidi cosi mica se ne trovano poi tanti..
Anche perché Morello sta in alto in alto, rispetto a Sesto, lungo la strada panoramica dei Colli Fiorentini, e per andarci a piedi, come mill’anni fa io e lui, bisognava tirare in salita e avere petto, non soltanto gambe. E d’estate ci crepavi, sotto il sole della Panoramica e il basso continuo delle cicale che frinivano come ne andasse della vita. Lui teneva il passo di montagna e s’accendeva una Nazionale, io meno montanaro ma giovanissimo mi permettevo divagazioni e curiosità lungo qualche acciottolato, lontano dall’asfalto infernale.
Quest’olio, insomma, me lo sono conquistato sulla salita, alla Bartali, e se ora è tatuato nei miei cromosomi, un motivo c’è.
Finché credetti di averlo perso per sempre.
Tanti anni fa (e tanti dopo Cesarino), mio padre mi disse “prendi la macchina e andiamo a Sesto, vediamo se alla Fattoria di Morello fanno ancora l’olio”. Così, alla sperindio, perché non c’era internet e figuriamoci se sapevamo come trovare il numero telefonico di quel posto, sempre che fosse esistito ancora, quel posto. Esisteva. E l’olio pure. Ne caricammo qualche tanica e tornammo a casa. Fu l’ultima volta, per altri secoli, che vidi Morello e il suo olio.
Come nei migliori romanzi, le stagioni seguirono alle stagioni, del clima e della vita, e un giorno mi trovai unico depositario degli antichi acufeni. Tanto che in un mattino di colpi di testa, io e mia moglie varesotta prendemmo l’auto e da quella provincia scendemmo a Sesto e poi salimmo a Morello, proprio come anni prima con mio padre. E l’olio, immortale, c’era ancora. Il mio olio. Quello che ho dentro.
Gli inglesi lo amano molto, quest’olio. Lo usa (si dice) anche Jamie Oliver e da queste parti conservano una sua foto dove bacia una bottiglia…
Mi hanno detto che Jamie Oliver usa solo questo. Non so se sia vero, mi pare improbabile. So invece per certo che Ruth Rogers e Rose Gray, proprietarie dello stellato River Cafe (iconic Italian restaurant in London since 1987, recita il web), lo adorino e lo usino nella loro cucina, che riverbera di sapori tricolori. Non è un caso che tra questi fornelli e questa dispensa ci sia cresciuto proprio Jamie…
Nel 2002, più di vent’anni fa, The Guardian dedicò loro un articolo, con tanto di descrizione della mia Morello e del mio olio. “Grassy, sharp and peppery”, lo descrive Rose. Verde, piccante e peperino: come l’avevo sempre sentito baciandolo sulle labbra, anche senza parlare inglese. Oggi è (quasi) l’unico olio extravergine d’oliva che uso. Non perché sia il migliore, non perché gli altri non siano buoni. No. Uso l’olio di Morello perché è dentro di me e ci capiamo. A casa mia, sempre. E sempre quando faccio il personal chef. Perché io e l’olio di Morello raccontiamo la medesima storia. Se ci addentate, abbiamo anche lo stesso sapore. Se ci spremete, versiamo nei nostri piatti le medesime lacrime. Verdi, piccanti, pepate.