Churros a Jerez de la Frontera… buoni sia per l’asciolvere, sia per un pusigno.
Il mio amico Vito Tartamella, caporedattore di Focus, la rivista di divulgazione scientifica, si è inventato anni fa un blog dedicato alle parolacce. Serio ma non serioso, il blog è diventato subito di grande successo. Anche perché, ammettiamolo, le parolacce sono un argomento di conversazione (e di curiosità) eccezionale. Un’idea geniale, insomma. che mi strappò qualche colorito commento: «Ma guarda quel grandissimo c#@]@]ne di Vito che fot‘¥~“¥~‹¥ma idea gli è venuta in quella c@#¬∞zo di testa!». Tanto per restare in argomento, insomma.
Ok, hai capito che il post di oggi è frivolo. Avevo in mente di scrivere un po’ dell’Expo milanese o del TTIP spiegato a tutti, ma in questi giorni sono parecchio depresso e quindi procrastinerò argomenti ben più pesanti in nome della facezia più pura. Come questa. Il blog di Vito, che ti “in…vito” a visitare (va bene, la pianto! Scusami, scusami, scusami, non ho resistito…), mi ha rammentato un ricordo antichissimo, di quando frugavo nei vocabolari alla ricerca di termini inconsueti. Perché lo facevo? Boh, credo che fosse una sorta di gioco, sull’usta di Selezione dal Reader’s Digest, rivista che immagino sia scomparsa. Tipo “arricchisci il tuo italiano” o “una parola al giorno”, per intenderci.
Beh, in questo fantasmagorico sollazzo, vi trovai pusigno e il suo verbo pusignare. Mi basta digitare queste due parole per capire quanto, nel lessico comune, male alberghino: il correttore automatico di Word continua e continua a correggermele in “lusingo” e “lusingare”, finché non lo zittisco con una spunta provvidenziale. Ti tolgo la curiosità: pusigno significa spuntino di mezzanotte o, ancor meglio, piccolo pasto dopo cena. Importato nel linguaggio odierno (anche quando “odierno” era 30 e passa anni fa) puzza però d’osceno e d’insolente. Dire a un professore che quella sera mi sarei fatto un pusigno ti procurava un’occhiataccia, forse anche un rimprovero. E spargere in giro la voce che pusigno non era la variazione sul tema di qualche pratica onanistica, ma vocabolo raro e quindi colto, ne garantiva l’affido a scolaresche zeppe di Giamburrasca, Pierini, Sussi e Biribissi, che a gran voce la declinavano in ogni modo. Io pusigno o mi pusigno? Ah, saperlo! E se mai ti dovessi pusignare?
Purtroppo, poiché pusigno non è turpiloquio, non potrò suggerirla a Vito. Posso però prendere la palla al balzo e scrivere sui nomi dei pasti quotidiani. Perché? Perché è meno deprimente che parlare dell’Expo. O di un patto scellerato fra Usa ed Europa.
Frugare nei vocabolari serve a trovare anche parole dimenticate, che rimandano a sapori antichi e insoliti.
Ci siamo appena alzati e la colazione è nota: viene dal latino collatio, che significa “mettere insieme”; presumibilmente cibi frugali, atti a spezzare il digiuno, ma ancor meglio cibi portati da più persone e riuniti sul medesimo desco e condivisi. Forse. Forse, perché forse a riunirsi erano le persone, non gli alimenti. Nel tardo latino, infatti, collatio aveva il significato di “riunione, conversazione” e indicava un breve incontro che i monaci tenevano prima o dopo la cena. Da lì sarebbe passata ad assumere il significato del pasto vero e proprio. Anche perché, all’origine, il nome della moderna colazione era asciolvere, un verbo sostantivato che, come al solito, proveniva dal latino absolvere. Significato: sciogliere. Sottinteso il digiuno. Un po’ come in «Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen». Qui il confessore mi scioglie dal legame opprimente del peccato, là un po’ di latte e biscotti sciolgono il digiuno e snodano le viscere.
«Avevo fame quella mattina» si legge in Piccole storie del mondo grande, romanzo di Alfredo Panzini (1863-1939) «più fame del consueto, prima perché spirava dal cielo terso d’aprile un’aura montanina che faceva amabilmente accapponar la pelle, e poi perché l’ora dell’asciolvere era stata ritardata di un buon quarto d’ora per esser dovuto andare all’ufficio delle Finanza a ritirare lo stipendio».
E poi? Eppoi la gente andava a lavorare e al massimo si faceva un bicchiere di vino, in attesa del pranzo vero e proprio. Che poi “pranzo” è uso un po’ moderno, poiché un tempo era genericamente il pasto principale della giornata (e poteva esser anche la cena) oppure del giorno di festa. C’era il pranzo della domenica, insomma, che cala dritto dritto dal latino prandium, bel vocabolo colto che profuma di chiesa e incenso. Fuori dalle feste c’era il desinare, come lo chiamava mio nonno ch’era della provincia fiorentina ed è lì che infatti l’ho sentito la prima e le ultime volte. Desinare possiede un suono che mi piace tantissimo e, se fosse per me, lo riporterei in auge, anche e soprattutto al di fuori della regione. Da dove arriva? Mah, non c’è studioso che non dica la sua. L’idea più concreta è che giunga da un’ipotetica e non attestata espressione latina (disiunare che starebbe per un altrettanto ipotetico disieiunare). Di scritto c’è però soltanto l’antico francese disner. Significato? Più o meno lo stesso di asciolvere, ossia “rompere il digiuno”. Non per nulla, il desinare ha indicato spesso la prima colazione, piuttosto che il pranzo vero e proprio.
Asciolvere, desinare… termini ormai passati di moda, ma che evocano echi di gusti e profumi legati a terra e tradizione.
Ok, passiamo alla merenda. Che sembra parola nuova, invece è vecchia. Me la ricordo in Boccaccio… «Avendo ragionato d’una merenda che in quello orto a animo riposato intendevan di fare» sta nella novella di Simona e Pasquino (Decameron, IV, 7), il tipo che muore pulendosi i denti con la salvia e lei che si prende la colpa, finché non non ci prova anche lei, lasciandoci le penne. Arriva dal latino merére, che significa guadagnare, meritare. La merenda, insomma, sarebbe un extra alimentare che ti arriva in mano dal fatto che te lo sei guadagnato: perché hai lavorato o studiato sodo oppure perché ti sei comportato bene. C’è chi dice che il suo vero significato stia in un’altra accezione del medesimo verbo: avere la sua parte. La merenda, insomma, sarebbe la porzione che ti spetta. Indipendentemente da come ti sei comportato. Scegli tu quel che preferisci.
Cena. Per i Romani era il momento in cui si mangiava tutti assieme, in famiglia, magari invitando anche un amico o un vicino. Si cominciava alle tre di pomeriggio e si andava avanti a oltranza, secondo voglia e possibilità. La cena, insomma, era il pasto principale della giornata. Che casino, dirai! Se il pranzo era il pasto più importante, adesso la cena che ci azzecca? Stai a vedere che un tempo erano sinonimi… No, per nulla.
Cena, secondo molti studiosi, deriverebbe da una radice antichissima (kad), la cui presenza si rivelerebbe nel sanscrito khad-âti e nell’antico slavo kasuti. Il senso? Masticare, spezzare coi denti, in pratica mangiare. E ci sta. Ma per il resto come la mettiamo?
La mettiamo così. Per i Romani i pasti erano tre. Il primo, la colazione, si chiamava ientaculum. Era qualcosa che serviva solo a spezzare il digiuno notturno: ti mangiavi in piedi un po’ di pane, un po’ di formaggio, qualche oliva, meglio ancora se qualche avanzo del giorno prima. Il pranzo (prandium) lo facevi a mezzogiorno: anche qui, poca roba, sempre in piedi o al limite ti sedevi se non avevi di meglio da fare. Prendevi un po’ di pane, ci mettevi della carne e t’inventavi il sandwich senza scomodare l’omonimo conte John Montagu… Una cosa così, insomma.
A coena (pronuncia cena, come in italiano), invece, ti potevi finalmente sedere o sdraiare a tavola, con tutti i tuoi, magari qualche amico se avevi i soldi per sfamarlo. E qui potevi mangiare davvero. Se eri messo bene, potevi cominciare a cenare verso le tre del pomeriggio (l’ora nona). Se dovevi lavorare per vivere, di solito attendevi il tramonto, momento in cui la giornata finisce e si può tirare il fiato.
E finalmente eccoci arrivati al pusigno. L’origine di questa parola è piuttosto chiara: viene da post-coenium, che significa dopo il momento della cena. Da questo post-coenium sarebbe disceso poscénio, poscégno, puscigno e infine pusigno. Un piccolo pasto non da poco, nell’ottica dei Romani. Se cenavi alle tre e non avevi poi così tanto cibo, uno spuntino in tarda serata ci stava eccome. Farsi un pusigno, almeno in quelle condizioni, era cosa buona e giusta. Oggi, oltre a essere un termine quasi scomparso, è relegato ai pop-corn e alle patatine davanti alla tivù, cosa né buona né giusta. C’è però chi usa ancora questa parola. Finendo per caso su TripAdvisor, scopro che a Santo Stefano di Magra, in provincia di La Spezia (Liguria), esiste una trattoria che si chiama La Casa del Pusigno, che ha solo una pagina Facebook, tra l’altro mal aggiornata. Mai stato, le faccio un po’ di pubblicità gratuita in fiducia. Dopo tutto, basta l’originalità a meritarsi un plauso.
PS: perché un piatto di churros con tanto di caffelatte, mangiati anni fa nel centro di Jerez de la Frontera? Nessun motivo: oggi mi manca la Spagna e lo Sherry, anche se è prima mattina…